UN’ALTRA MORTE IN CARCERE. QUESTA VOLTA A BOLOGNA
Un’altra morte in un carcere, questa volta a Bologna.
Il ventiseiesimo suicidio da inizio anno ha posto fine alla vita di una donna di 55 anni, di origine slovacca, detenuta nella sezione femminile della casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna.
Vorrei innanzi tutto esprimere la mia vicinanza e il mio cordoglio ai suoi familiari.
E non posso tacere che non è accettabile che si muoia per suicidio in carcere, un luogo dove ci si trova sotto la responsabilità e la tutela dello Stato. Siamo invece di fronte a una sorta di epidemia suicidaria.
Il suicidio di una donna, poi, è una sconfitta ancora più pesante, in quanto le donne rappresentano appena il 4% della popolazione detenuta all’interno delle strutture penitenziarie della nostra regione. In proporzione è come se si fossero suicidati in cella 22 uomini in un solo giorno.
Questo drammatico confronto forse ci aiuta a capire il peso reale di un suicidio in un reparto di detenzione femminile.
Come istituzioni non possiamo stare a guardare. Dobbiamo agire e mettere in campo ogni sforzo per evitare i suicidi di detenuti e detenute: il carcere non è un luogo dove abbandonare le persone che hanno commesso reati e punirli, ma deve essere un punto di ripartenza, con funzioni educative come previsto dall’art 27 della nostra Costituzione.
A inizio marzo, con un’interrogazione urgente, avevo sollecitato la Giunta dell’Emilia-Romagna a migliorare, nell’ambito delle sue competenze, le condizioni di detenzione delle detenute, a cominciare dall’offerta di percorsi di formazione e qualifica professionale che le aiuti a reinserirsi nella società a fine pena. Sono percorsi di crescita personale che possono aiutare a dare speranza e quindi a contrastare la disperazione che spinge al suicidio.
La vita delle detenute è più dura rispetto ai detenuti.
Nell’interrogazione ho evidenziato che – secondo quanto denuncia l’Associazione Antigone – le donne rappresentano una quota residuale sul totale della popolazione detenuta, una situazione che costituisce un problema organizzativo per le amministrazioni penitenziarie. I numeri molto contenuti delle presenze femminili in carcere rendono più complicata l’organizzazione e la gestione di percorsi di studio, anche a causa della carenza di spazi; analogamente, negli spacci dei penitenziari non c’è disponibilità di articoli destinati ad acquirenti donne sempre a causa dello scarso numero di detenute che non rende appetibile commercialmente la fornitura di beni di consumo. In altre parole: anche in carcere prevalgono modelli organizzativi tarati su esigenze maschili.

Silvia Zamboni

Giornalista – Ambiente e Sostenibilità, Energia e Cambiamenti Climatici, Economia Circolare, Green Economy, Sharing e Digital Economy, Mobilità Sostenibile, Turismo Sostenibile, Agricoltura e Manifattura Biologica, Politiche Ambientali Europee.