Dagli anni ’70 al 2010 in Italia la cementificazione si è “mangiata” una superficie agricola pari a Emilia-Romagna, Veneto e Liguria messe insieme. Anche a livello globale, di fronte alla crescita della popolazione mondiale il fenomeno della sottrazione di terreno agricolo ha assunto dimensioni sempre più preoccupanti in relazione alla perdita di biodiversità e delle fonti di sostentamento alimentare. Mentre è partita la corsa di ad accaparrarsi terreni agricoli fuori dai propri confini.

Al tema “Suolo: la guerra per l’ultima risorsa”, è stato dedicato l’appuntamento annuale dei Colloqui di Dobbiaco ( Dobbiaco, 29-30 settembre 2012). Pubblico di seguito un mio articolo sull’argomento uscito sul numero 23/dicembre 2012 di micron, la rivista bimestrale dell’ARPA Umbria.

SUOLO, BENE COMUNE NON RINNOVABILE

Cento e più ettari al giorno, più o meno l’equivalente di 140 campi da calcio: a tanto ammonta nel nostro paese la cementificazione quotidiana del suolo. Col risultato che, dagli anni ‘70 al 2010, la superficie agricola utilizzata in Italia è passata da quasi 18 milioni di ettari a poco meno di 13. In altre parole, è andata persa una superficie pari a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme. La riduzione maggiore riguarda seminativi e prati permanenti, ovvero i due ambiti da cui provengono i principali prodotti di base dell’alimentazione degli italiani: pane, pasta, riso, verdure, carne e latte. Al punto che l’Italia attualmente produce circa l’80-85% delle risorse alimentari necessarie a coprire il suo fabbisogno. Un italiano su quattro, quindi, si nutre di cibo d’importazione. Non va meglio nelle città: secondo ISPRA (Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione ambientale) negli anni compresi fra il 1949 e il 2011, in4 città sulle 43 aree urbane considerate, la cementificazione ha riguardato più della metà del territorio comunale, mentre in 10 città è compresa tra il 30 e il 50 per cento.

Per invertire questo trend, su iniziativa del ministro all’Agricoltura Mario Catania, il 16 novembre scorso il governo ha approvato il “Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo”. Con questo provvedimento, ha spiegato il ministro, “abbiamo introdotto un sistema che prevede di determinare l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale. Questa quota viene poi ripartita tra le Regioni le quali, a caduta, la distribuiscono ai Comuni. In questo modo si fissa l’ammontare massimo di terreno agricolo cementificabile distribuendolo armonicamente su tutto il territorio nazionale”. Sarà dunque un decreto concertato con le Regioni a stabilire in che misura si potrà consumare nuovo suolo per costruire case e capannoni o se, per gli stessi fini, non si dovrà invece fare ricorso al riutilizzo di superfici già urbanizzate, grazie anche alle ipotizzate misure di semplificazione legislativa e di incentivazione. Inoltre, il ddl interdice per cinque anni i cambiamenti di destinazione d’uso dei terreni agricoli che abbiano ricevuto aiuti di Stato o comunitari. E interviene sul sistema degli oneri di urbanizzazione vietando che, come avviene oggi, possano essere in parte destinati a coprire la spesa corrente dei Comuni, con ciò alimentando una perversa tendenza a dare il via libera alla cementificazione di nuove aree agricole per fare cassa.

Sul fronte europeo dello stop alla cementificazione, fin dal 1998 la Germania si è data l’obiettivo tendenziale di scendere, al 2020, a 30/ettari giorno di consumo di suolo, contro i 100 ettari circa di consumo reale all’epoca in cui fissò questo obiettivo e gli 80 registrati al 2010. Un calo, quest’ultimo, dovuto probabilmente più alla crisi del settore edilizio che all’efficacia di politiche di contenimento che sono in via di perfezionamento e di avvio. Tra queste, l’introduzione, a livello nazionale, di un “mercato per la compravendita” dei certificati di destinazione d’uso delle aree ancora libere, sulla falsariga del mercato delle emissioni di anidride carbonica previsto dal Protocollo di Kyoto. In altre parole, ai Comuni verrebbe data facoltà di utilizzare le quote di contingentamento del suolo ricevute o, viceversa, di venderle ad altri Comuni bisognosi di maggiori disponibilità di aree. Il ricavato della vendita potrebbe essere utilizzato per investimenti, ad esempio, di riqualificazione di aree già urbanizzate.

Va detto che la perdita di biodiversità e di aree libere, in particolare di superficie agricola da destinare alla produzione alimentare, è un problema di dimensione globale. Mentre la popolazione mondiale continua a crescere al ritmo di 80-85 milioni all’anno e si avvia a tagliare al 2050 il traguardo dei 9 miliardi, “i migliori terreni per la produzione alimentare vengono impermeabilizzati quotidianamente dall’espansione dell’urbanizzazione e dalla realizzazione di edifici, impianti produttivi e infrastrutture per i trasporti”, ha sottolineato il professor Winfried Blum, dell’Università per la Cultura del suolo BOKU di Vienna, intervenendo ai Colloqui di Dobbiaco 2012 (“Suolo: la guerra per l’ultima risorsa”, 29-30 settembre). Nella sola Europa dei 27 ci mangiamo ogni anno 1000 chilometri quadrati di suolo, pari a 300-350 ettari giorno, mentre nel mondo si cementificano quotidianamente 200-300 chilometri quadrati di terreni. Inoltre, ha rincarato, il suolo è sempre più sfruttato per produrre biocombustibili in concorrenza con la produzione alimentare. Senza dimenticare che, mentre nei paesi industrializzati un terzo circa degli alimenti finisce nella pattumiera, la presenza sempre più marcata di carne nella dieta alimentare fa aumentare il consumo di cereali da destinare all’alimentazione animale. Basti pensare che per produrre un chilo di carne di pollo ci vogliono 2-3 kg. di cereali, 4-5 per un chilo di carne di maiale, 7-10 per un chilo di carne bovina. E intanto, per la prima volta dalla cosiddetta “rivoluzione verde” degli anni ’60, la resa dei raccolti cresce più lentamente dell’aumento della popolazione. Al punto che Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute e dell’Earth Policy Institute, sostiene che siamo entrati nell’ “era della scarsità alimentare”. L’agricoltura globale si trova di fronte a sfide del tutto nuove, scrive nel suo ultimo libro 9 miliardi di posti a tavola (Edizioni Ambiente): le falde idriche calano, le rese cerealicole hanno raggiunto il loro limite, le temperature globali aumentano e l’erosione dei suoli continua ad aggravarsi.

E’ in questo contesto, in cui il cibo ha assunto la stessa importanza del petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l’oro, che ha preso l’avvio negli ultimi anni una nuova forma di speculazione internazionale: il land grabbing, ovvero la corsa all’accaparramento, nei paesi in via di sviluppo, di terreni coltivabili e annesse risorse idriche, per produrre alimenti e biocombustibili. Stando alle stime elaborate nel 2012 da Oxfam, un’organizzazione che opera nella cooperazione allo sviluppo, “più di 200 milioni di ettari, pari alla superficie di tutta l’Europa occidentale e a un quarto delle terre fertili del mondo, sono già stati sottratti ai contadini che le coltivavano, per essere prese in gestione o acquistate da grandi gruppi di investimento”, ha puntualizzato Wilfried Bommert, fondatore del World Food Institute. La Banca Mondiale parla addirittura di una perdita corrispondente al 40%. Le aree in cui si concentra il land grabbing sono l’Asia sudorientale, l’Africa sub-sahariana e l’America del sud. Quattro le crisi mondiali interconnesse all’origine del fenomeno, secondo Bommert: la crisi dell’alimentazione mondiale, quella dei mercati finanziari, quella dell’energia e la crisi del clima che riduce i terreni fertili e le riserve idriche. I protagonisti dell’acquisto forzato di terreni fertili sono i Paesi che importano cibo, i mercati finanziari (a caccia di nuovi canali di investimento che garantiscano redditività ai capitali gestiti), le multinazionali energetiche (che puntano sui carburanti prodotti in agricoltura), il mercato internazionale delle emissioni di CO2 (che rende appetibili i terreni nei Paesi a basse emissioni in funzione della vendita dei certificati).

Impermeabilizzazione di terreni coltivabili e perdita di paesaggio sono la classica punta dell’iceberg di un gravissimo processo di impoverimento della biosfera che colpisce la straordinaria ricchezza di biodiversità e il tesoro di molteplici forme di vita che abitano il terreno, svolgendovi attività fondamentali per il nostro ambiente. “I buchi negli strati inferiori del suolo sono i bioreattori in cui si svolgono le funzioni vitali di trasformazione della materia organica”, ha sottolineato Blum. La porzione di un ettaro di terreno fino a 20 centimetri di profondità corrisponde, come ricchezza biologica, a 210.000 chilometri quadrati di superficie esterna. Il suolo, dunque, come meraviglia ecologica che genera biomassa sotto forma di cibo, mangimi per gli animali e materie prime rinnovabili; filtra e depura l’acqua piovana; ospita la più grande riserva di materiale genetico della terra e la maggioranza degli organismi viventi (come numero e massa); è la piattaforma su cui poggiano le infrastrutture realizzate dall’uomo, come case, strade, fabbriche; fornisce le materie prime per costruire; custodisce testimonianze archeologiche e paleontologiche che ci parlano del passato di un territorio e delle popolazioni che lo hanno abitato; conserva l’impronta dell’attività dell’uomo. Continuare a trattarlo alla stregua di una merce qualsiasi, anziché come bene comune non riproducibile  non dovrebbe essere più consentito.

 

Silvia Zamboni

Giornalista – Ambiente e Sostenibilità, Energia e Cambiamenti Climatici, Economia Circolare, Green Economy, Sharing e Digital Economy, Mobilità Sostenibile, Turismo Sostenibile, Agricoltura e Manifattura Biologica, Politiche Ambientali Europee.